A cura di Lucia Muolo
My stalker doesn’t love me. Questo il titolo dell’ultimo lavoro dei calabresi Ogun Ferraille. Sì, ultimo, perché hanno all’attivo già un Ep autoprodotto (My own drama, 2007) e un album (Finalmente ti ho ucciso Batman, 2009), con la Morone Records. Il gruppo è in realtà il “trio essenziale“ del rock: chitarre e voce, affidate a Mauro Nigro, batteria con Marco Filice e infine basso e voce per Stefano Greco; affermano che la dimensione dal vivo è quella che più li lascia liberi di esprimersi ed è proprio grazie a questa che hanno conquistato il loro attuale seguito, facendosi inserire nel sito keepon.com tra le band live rivelazione.
Il lavoro è interamente concepito in inglese, in un vortice impetuoso di sentimenti forti tanto quanto la loro musica che non fa il verso a nessuno, ma che semplicemente vuole comunicare: la rabbia, l’inquietudine e la quotidianità miscelate ai suoni dell’anima. E di anime se ne vedono tante in questo progetto. Cioè che mi colpisce a primo impatto è quanta ironia ci sia nel titolo dell’album, che si contrappone totalmente al tono “cupo” del contenuto.
Ad aprire l’album, “Barney’s Version”, caratterizzato da un riff di chitarra diretto e pieno di influenze, dal grunge all’alternative. Un pezzo con sfumature leggere ma percettibili. Un finale aperto, che lascia sospesi. Segue un, si presume, personalissimo discorso sulla figura paterna. “ “Candiru” è un vero e proprio brano recitato, caratterizzato da sonorità potenti che si trasformano nel finale in suoni accennati che catapultano negli anni ’70! “(Freeing you From) Haviness of Choice” non mi entusiasma particolarmente. La voce forse troppo esasperata, il charleston evidentemente marcato. Il quarto brano è “Interrupted Speech”: un altro mondo si apre. Sembra che si tratti di un altro album o di intenzioni diverse. Il giro di chitarra è malinconico e rimane impresso al primo ascolto, la batteria lenta a scandire una voce meno sforzata, sofferente ma piacevolissima. La mia preferita insieme alla consecutiva “Act Of Sorrow”. E’ una questione di stomaco, quei pezzi che li senti e immediatamente ti ricordano qualcosa, o qualcuno. E mi fermo, li riascolto e li riscopro più belli. Pelle d’oca con l’assolo e il giro di basso finale. Il penultimo brano è “Peter”: un monologo allo specchio, una chiacchierata con se stessi. Domande e risposte, rispettivamente accompagnate da basso e chitarra che si interrogano e rispondono come il protagonista, come qualcosa che vive. E sembra quasi di poter disegnare la scena.
Va a “Sleeping with my Ghosts” il compito di chiudere l’album: ancora sonorità “uggiose” a dare il primo volto a questo brano. Una consapevole dichiarazione dei limiti e delle debolezze umane urlate in musica. Ogni brano sembra realizzato come un prodotto da presentare da solo. Un lavoro difficile da iscrivere ed etichettare in un unico genere, perché fatto di sentimenti e verità, la verità che hanno bisogno di raccontare non curandosi di essere per forza qualcosa.
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